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22 aprile 2019

"Se uno è parente di mafioso, può o non può lavorare?" Il caso della Luxury Hours

"Se uno è parente di mafioso, può o non può lavorare? Può o non può aprire una gioielleria? Si parla del recupero delle persone, ma se non le facciamo lavorare che recupero si può avere?".
Questa domanda è comparsa in una lettera firmata pubblicata su la Repubblica. 
Era il giorno successivo alla notizia della chiusura della gioielleria Luxury Hours di via Felice Cavallotti. Proprio questo fatto ci permette di rispondere con completezza agli interrogativi posti dal lettore.
La gioielleria è diventata oggetto di due misure: una amministrativa con interruzione dell'attività commerciale e un'altra di prevenzione patrimoniale. La prima revoca gli effetti della Scia commerciale a Michela Radogna, convivente di Giovanni Fontana che ha da poco scontato una pena per 416 bis in quanto associato alla famiglia dell'Arenella-Acquasanta di Palermo, cognata di Gianluca Panno, nipote di Giuseppe Panno già capo mafia di Casteldaccia (PA), ucciso e sciolto nell’acido nel 1981 a Bagheria. La seconda misura sequestra il patrimonio a Giovanni Fontana oltre a diversi beni immobili, un conto corrente a la gioielleria o meglio ciò che conteneva, perché i muri non erano di proprietà.
La motivazione di questa misura è presto detta: una "sproporzione (in questo caso notevole) tra i redditi dichiarati e gli investimenti patrimoniali effettuati“, come prescrive l'articolo 20 del Codice Antimafia.
Quindi i mafiosi e i parenti di mafiosi possono lavorare anzi dovrebbero lavorare, a meno che non siano costretti a lavorare per giustificare proventi illeciti. Questo pare il caso: “reimpiego di ricchezze accumulate illecitamente”. Quindi: sequestro.
La prima misura (la revoca dell'efficacia della Scia a seguito di una interdittiva antimafia) non viene applicata a Michela Radogna unicamente perché convivente di una persona che ha scontato in carcere una condanna per 416 bis. Non è sufficiente. E poteva tranquillamente essere applicata anche senza il sequestro disposto da Palermo. 
In questo caso si fa riferimento al Codice Antimafia all'articolo 91 comma 6: il Prefetto può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da concreti elementi da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
Le misure sono diverse anche perché per opporsi a quest"ultima (l'interdittiva antimafia) si fa appello al Tar, mentre nella misura di prevenzione patrimoniale, ex articolo 20, si fa ricorso in sede penale alla Corte d'Appello.
Quindi nessun pregiudizio, nessuna volontà anticostituzionale, ma indizi e prove.
Come scrive Piero Colaprico nella risposta al lettore "Quello che serve è mantenere l'attenzione in una città come la nostra, dove ci sono 83mila esercizi commerciali e, solo lo scorso anno, hanno aperto 3.579 nuove attività e si sono registrati 2.306 subentri di gestione. Numeri elevati. 
A chi, sbagliando, crede che la mafia non sia affar suo, va detto che non lo è finché non lo decide la mafia."